In questi tempi di quarantena ricordo ciò che raccontava mio padre, la sua “quarantena” durante il periodo di Salò (ottobre 1943-aprile 1945). Non era stata, la sua, una scelta imposta da una norma, ma dalle circostanze.
Mio padre era stato ferito in modo non grave nel giugno del 1940, sul fronte occidentale, aveva schegge in diverse parti del corpo, in parti non vitali, le più importanti si erano conficcate nella sua caviglia sinistra, tra i tendini. Per parecchio tempo gli impedirono di camminare correttamente; per questo motivo nel 1942 venne congedato e gli venne assegnata una piccola pensione di guerra. Si iscrisse così all’Associazione degli Invalidi di Guerra, ma questa è un’altra storia.
Fino al settembre 1943 svolse una vita normale, anche se non ritornò al suo lavoro (era meccanico) perché lavoro non ce n’era, ma non si lamentava, la famiglia aveva alcuni terreni, che in tempo di guerra volevano dire possibilità di coltivare per procurarsi il cibo.
Le cose cambiarono dopo l’8 settembre 1943, quando i fascisti nel centro-nord Italia formarono la Repubblica Sociale, e soprattutto la presenza dei tedeschi fu costante.
In realtà nella sua situazione, invalido congedato, il governo fascista non poteva dargli fastidio, era infatti a casa regolarmente e i bandi del generale Graziani che chiamavano i giovani alla leva non lo riguardavano. Inoltre Rapallo era una zona tranquilla, la forte presenza tedesca rendeva improbabile le operazioni resistenziali. Ciò che lo preoccupava erano i tedeschi, che regolarmente rastrellavano uomini per inviarli a lavorare in Germania oppure per lavorare alle fortificazioni antisbarco costruite dalla Organizzazione Todt, tra cui il muraglione che chiudeva la spiaggia. Non aveva segni evidenti di menomazioni, sarebbe stato molto difficile spiegare la situazione. Ed allora per tutti seicento giorni di Salò rimase tra la casa ed i terreni di famiglia, a San Pietro, sulla collina proprio sopra le attuali cooperative.
Coltivava la terra, andava nel bosco a raccogliere legna o castagne (ognuno a quel tempo andava rigorosamente nel proprio bosco), e naturalmente aveva una vita sociale con le altre persone che abitavano a San Pietro. Non c’erano solo gli abitanti soliti, tutte le case disponibili erano state affittate agli sfollati, rapallesi o genovesi. Vicino a casa era sfollata una cugina che era una conosciuta sarta rapallese, e da lei mio padre raccontava che andava a sentire radio Londra, al piano di sopra c’era il “ragazzo” Benatti, che tutti abbiamo conosciuto. C’erano anche tante ragazze giovani.
Ricordo che mi faceva vedere il luogo, nel punto più alto della collina, dove osservava, quando non aveva nulla da fare, il mondo di fuori. Si appoggiava a un grosso ulivo, in modo che da lontano non potesse essere visto. Fu così che assistette al ritorno dei partigiani della formazione GL Matteotti che il 4 novembre 1944 sul ponte di Sant’Anna avevano ucciso il comandante delle camicie nere (le milizie fasciste) di Santa Margherita, Ferdinando Casassa, salivano svelti la strada che portava a Savagna e quindi al loro rifugio oltre i monti; il pomeriggio del giorno dopo vide, nella strada carrozzabile di San Pietro, la lunga schiera degli uomini razziati dai fascisti a Tonnego e San Quirico (per fortuna non venne ucciso nessuno, la vendetta per l’uccisione del fascista si era già compiuta su due innocenti).
Poi arrivò l’aprile del 1945, e di fronte a casa sua, dall’altra parte della valle, a Villa Bontempi, si radunavano i patrioti che la mattina del 25 aprile scesero su Rapallo (ormai i fascisti e i tedeschi erano asserragliati nella casa del fascio, si sarebbero arresi verso mezzogiorno agli Alleati).
Dopo qualche settimana era già nel garage che si trovava allora dove ora c’è il supermercato della Basko, e nel tempo libero faceva a gara con i soldati sudafricani a lanciare l’auto contro il muro di fondo per vedere chi si fermava più vicino. Proprio il muro dove ora c’è il banco della carne e dei formaggi.