Siamo ormai nel pieno della prima pandemia del mondo occidentale che conosciamo, del nostro scintillante villaggio globale, i cui contorni parrebbero uscire da una delle tante sceneggiature hollywoodiane non sempre definibili come capolavori. Eppure ci siamo in mezzo.
Viviamo una situazione che forse solo a Chernobyl 35 anni fa si è potuta provare pienamente, trattandosi infatti di un fenomeno tipicamente post-moderno perché velocissimo nella sua diffusione, con un fortissimo impatto nei media (in fatto di interesse e percezione) e per le mancate risposte del mondo scientifico… essendo, noi di oggi, del tutto assuefatti al magico potere degli scienziati in grado di studiare tutto, progettare altrettanto e curare ogni nostro male semplicemente ingurgitando una pastiglia, sempre sicura e sempre disponibile per tutti noi.
Si caratterizza poi per l’incertezza delle spiegazioni sulle origini e gli esiti del problema, ma soprattutto perché si tratta di un fatto talmente nuovo che non abbiamo pronta alcuna narrazione recente in merito. Abbiamo a nostra disposizione solo storie più o meno famose di un passato remoto fatto di peste, monatti, untori e lazzaretti traboccanti di corpi esanimi. E senza uno storytelling ufficiale, positivo e credibile, l’angoscia dell’uomo post moderno avanza inesorabile.
Dobbiamo dunque inventarci qualcosa per reagire a tutto questo, per controllare quell’angoscia e difenderci dal nemico invisibile. Un nemico che assume la forma e l’immagine di un essere umano qualsiasi che, fino a qualche secondo prima di infettarsi, era uno di noi. Da qui l’utilizzo dei meccanismi di difesa tipici delle crisi forti: isterismo, complottismo, farneticazioni, super-ego e grande considerazione di sé stessi in quanto buoni, in quanto sani o in quanto vittime ingiuste dell’incoscienza altrui.
Diventiamo monadi contro monadi, tribù contro altre tribù.
Ma la verità è che quanto sta avvenendo non era assolutamente evitabile e che nessuno è preparato e attrezzato per gestire un’emergenza così nuova e drammatica.
C’è chi nega, c’è chi sottovaluta, chi evita volontariamente pacifiche norme di prudenza e accortezza, come se i problemi riguardassero sempre gli altri e come se questa problematica fosse magari reale ma distante ed estranea, facendo finta di non notare che la stessa è già arrivata dietro al portone di casa nostra e che sta solo aspettando un incontro ravvicinato con noi.
Esempi lampanti sono la spiaggia gremita di Boccadasse, la movida che non si ferma, il raduno dei Puffi in Francia, i ristoranti pieni in tutta Europa.
Naturalmente c’è anche chi vive il rischio del contagio con forte ansia, timore e preoccupazione tanto da portarlo facilmente a perdere il controllo, ad annullare le sue capacità di auto protezione e a renderlo inadeguato ad affrontare il suo stesso problema.
Da qui le fughe di massa in stazione, gli assalti ai supermercati e le telefonate compulsive alle autorità cittadine.
Ma se tutto ciò è vero, all’uomo post-moderno non rimane che un modo per affrontare un qualcosa che non ha né precedenti né spiegazione: quando nessuno ha e può avere risposte immediate e soluzioni certe deve prevalere la solidarietà e l’unione, il senso della responsabilità (piccola o grande che sia) a cui ciascuno di noi in questo momento è chiamato. In questo caso responsabilità indica anche e non solo l’autotutela ma soprattutto la capacità di trovare risposte, a seconda del luogo in cui la vita lo ha posto e degli strumenti intellettuali di cui la natura lo ha dotato: deve trovare la migliore strategia possibile di adattamento con uno speciale sforzo di elaborazione creativa e propositiva, al fine di creare un proprio modello di autodifesa efficace e resiliente.
A quel punto diventa suo preciso compito condividere con gli altri la sua esperienza: egli deve parlarne, scriverne, discuterne con le persone care, gli amici, con chi si vuole, affinché il risultato di quello sforzo diventi patrimonio comune ed una importante pagina del nuovo manuale di sopravvivenza in tempi di Coronavirus. Un libro che non c’è e che dobbiamo scrivere al più presto tutti noi.
Il filosofo Hannah Arendt diceva che le persone facendo del proprio mondo l’oggetto del discorso, lo umanizzano. Ecco, allora parliamone, discutiamone, confrontiamoci senza tesi preconcette e arroganze di vario genere.
Perché solo parlandone diamo segnale della nostra umanità.
Si ringrazia la Dott.ssa Mariella Inguì, psicoterapeuta, per i molti spunti forniti nella redazione di questo articolo.