Il 12 ottobre del 1922 Rapallo fu testimone di un feroce atto di violenza perpetrato da alcuni squadristi fascisti su un operaio socialista, Giacomo Frantini, che venne ucciso con un colpo di pistola sparato in modo deliberato.
L’episodio si inquadra nel clima di violenza esistente in Italia nel primo dopoguerra, che peggiorò notevolmente con l’arrivo del fascismo come soggetto politico, nel 1919/1920.
Nel Tigullio il fascismo si manifestò virulento, fin da subito, dal 1921, a Chiavari, Lavagna, Sestri Levante, dove esistevano realtà produttive di un certo rilievo, gli squadristi attaccarono le sedi dei partiti operai, le camere del lavoro, i sindacati. Rapallo rimase nei primi tempi defilata, a causa della mancanza di concentrazioni operaie.
Ma fu nell’anno seguente, il 1922, che dalla primavera si dispiegò il tentativo fascista di conquista dell’Italia settentrionale. Questo significò il dilagare della violenza nelle nostre zone, soprattutto dopo lo sciopero legalitario dell’estate di quell’anno. Bastonature, aggressioni, sparatorie, erano frequenti, presto si ebbero i primi morti. A Chiavari in agosto un operaio comunista venne colpito a morte, poco dopo sempre a Chiavari venne assassinato un passante.
Dopo i socialisti, la violenza fascista si spostò sui cattolici, così le violenze arrivarono anche a Rapallo.
Se nel 1921 i fascisti avevano cercato di attaccare la camera del lavoro, e l’avrebbero devastata nell’agosto 1922, nel mese successivo toccò al circolo cattolico San Filippo Neri. É ben nota la forte presenza a Rapallo dei cattolici politici, con il sindaco, Lorenzo Ricci. I cattolici si riunivano nel Circolo San Filippo Neri, costituito anche fisicamente attorno alla chiesa parrocchiale, che rappresentava il punto di aggregazione per la gioventù cittadina, palestra di formazione per i futuri politici.
Quando la violenza fascista si abbatté sul partito popolare, il circolo cattolico non poteva evitare la rappresaglia.
Pochi giorni e anche a Rapallo la violenza toccò il suo apice con l’assassinio di Giacomo Frantini, che non era di estrazione cattolica (è definito socialista, più spesso comunista, ricordiamo che il partito comunista era stato fondato a Livorno solo l’anno precedente), ma che in quel momento aveva compiuto un atto (una scritta sui muri) di appoggio al sindaco Ricci.
Giacomo Frantini venne assassinato nel primo pomeriggio del 12 ottobre 1922 in quella che ora si chiama via Frantini, a Rapallo, allora inizio di via Laggiaro, da parte di un gruppo di cinque/sette fascisti locali che erano andati a chiedergli giustificazioni, forse assestargli anche una bastonatura, per alcune scritte che erano apparse in centro inneggianti al Sindaco Ricci e contro i fascisti.
La vicenda è ormai ampiamente disponibile nei dettagli, da quando è disponibile l’intero incartamento processuale con il quale nel 1945/46 vennero sottoposti a procedimento penale i suoi presunti assassini.
Il caso venne riaperto ufficialmente il 16 luglio del 1945, con un rapporto inviato dai Carabinieri (ancora Reali) di Rapallo alla Pretura. Nel rapporto si segnalava che il 12 giugno precedente la Commissione di epurazione di Rapallo aveva trasmesso una circostanziata denuncia della Sig.ra Maria Magnini ved. Frantini contro cinque persone, ritenendole responsabili della morte del marito, Giacomo Frantini, il 14 ottobre 1922, a Rapallo. I Carabinieri iniziarono le loro indagini interrogando subito un testimonio d’eccezione, un compagno di lavoro dell’operaio, che in quel momento si trovava con lui. Lasciamogli la parola: “Nel pomeriggio di un giorno dell’anno 1922 del mese di settembre o di ottobre mentre mi trovavo a lavorare da muratore presso la ditta Quaglia di Rapallo, in località Laggiaro vicino all’officina del Gas in compagnia di Frantini Giacomo, si presentarono sette o otto individui armati di manganello.
La squadra chiamò il Frantini, che io però trovandomi a una certa distanza non sentii di cosa parlassero, circondandolo. In questo momento vidi che gli davano degli spintoni, ma il Frantini riuscì a farsi largo armandosi di un pezzo di legno. A vista di ciò uno della squadra, e precisamente tale Pendola Giolitto, estrasse una rivoltella e sparò un colpo contro il Frantini, che colpito cadde a terra gravemente ferito. Mi affrettai subito a trasportare a mezzo di una vettura il Frantini al locale Ospedale Civile, da dove poi venne portato a Genova decedendovi dopo qualche giorno”.
La testimonianza è scarna ed essenziale, non dice perché i fascisti vennero a cercare l’operaio e cosa gli contestassero.
É l’unica testimonianza riportata nella relazione; con questa i Carabinieri denunciarono alla Pretura Benedetto Pendola per omicidio, e gli altri per concorso. Quasi tutti si resero latitanti.
Di fronte al magistrato, il medesimo compagno di lavoro, qualche mese dopo, rese una testimonianza più completa.
“…A un certo punto (mentre lavorava con il Frantini, NdA) si presentarono sei o sette giovani i quali si fermarono a una decina di metri da dove io e il Frantini lavoravamo. Uno del gruppo chiamò il Frantini invitandolo ad avvicinarsi. Il Frantini che era intento al lavoro, in maniche di camicia e senza giacca, prontamente si avviò verso il gruppo che lo aveva chiamato. Egli non aveva in mano alcun oggetto.
Quando fu vicino ai giovanotti parlò per un pò con costoro ma io non sentii quello che fu detto. Vidi che dopo lo scambio di alcune parole i giovanotti divennero aggressivi e cominciarono a dare degli spintoni al Frantini. Fu allora che il Frantini, vistosi minacciato, si fece largo tra i fascisti che lo circondavano e fatti due o tre passi indietro afferrò un pezzo di legno che si trovava a terra. Trattavasi di un travetto della lunghezza di un metro e mezzo circa e del diametro di dieci centimetri. Egli alzò questo pezzo di legno in atteggiamento di difesa. Proprio in quel momento si udì uno sparo. Il Frantini colpito cadde a terra mentre i fascisti si diedero alla fuga in diverse direzioni. A sparare fu Benedetto Pendola che io dopo aver udito lo sparo vidi con la rivoltella ancora in pugno. Il Frantini non fece l’atto di portare la mano alla tasca posteriore dei pantaloni”. A questo punto il testimonio spiega alcune contraddizioni con quanto aveva dichiarato nel 1922, e ricorda le minacce che gli vennero rivolte lo stesso giorno: “Dopo il ferimento del Frantini fui fermato in piazza Cavour dal … che mi disse che se avessi parlato avrei fatto la stessa fine del Frantini. Per dirmi quello si era alzato dal tavolino del caffè Centrale al quale era seduto.”
Lo stato d’animo di questo testimone venne ben descritto dal fratello:
“Subito dopo l’uccisione del Frantini ebbi da mio fratello tutto turbato ed emozionato dal fatto la narrazione di come si svolse … Mio fratello era molto timoroso di dover andare a deporre sui fatti a sua conoscenza per timore di rappresaglie da parte dei fascisti e ricordo che in quell’occasione si presentò al Maresciallo dei Carabinieri manifestandogli la sua intenzione di volersi imbarcare e noi stessi per circa una settimana ci allontanammo in campagna. Il fatto suscitò molto scalpore ed i nomi di coloro che avevano fatto parte della squadra di fascisti responsabili della morte del Frantini erano noti.”
La testimonianza di chi assistette ai fatti è precisa, e tuttavia incompleta, mancano infatti le motivazioni per le quali i fascisti volevano aggredire l’operaio. Per conoscerle dobbiamo ascoltare la testimonianza di chi partecipò all’aggressione.
“Nell’ottobre del 1922, poco prima che il fascismo andasse al potere, erano apparse sui muri di Rapallo delle scritte dicenti: Viva Ricci, abbasso il Fascio. Un giorno di detto mese, non ricordo se al mattino o al pomeriggio, io mi trovavo nel caffè allora esistente nella via Cairoli. Era con me un certo … esercente il frantoio di Montallegro, i due fratelli …, dietro a noi si trovava anche …. A un certo punto uno della comitiva, non ricordo chi, propose di andare a domandare a certo Frantini Giacomo, detto Milano, muratore, se era stato lui a fare le iscrizioni sui muri ai quali ho accennato. Partimmo tutti quanti in direzione del luogo dove il Frantini lavorava, che era vicino all’officina del Gas. Durante il tragitto si unì a noi anche il Pendola Benedetto…Giunti sul luogo dove il Frantini lavorava, trovammo costui intento all’erezione di un ponte. Non ricordo se fosse solo o con altri operai. Io ero alticcio. Chiamai il Frantini, invitandolo ad avvicinarsi. Il Frantini venne senza esitare. Nell’avvicinarsi al nostro gruppo egli prese in mano un grosso pezzo di legno, un travetto della lunghezza di circa due metri e del diametro di circa dieci centimetri. Quando era vicino a noi qualcuno della comitiva che non ricordo, gli chiese se era stato lui a fare le iscrizioni sui muri. Il Frantini rispose: “Si, sono stati io e me ne frego di voialtri”. Senza che da parte di alcuno della comitiva gli fossero fatte delle minacce o fosse stato comunque provocato, il Frantini, mentre noi stavamo per allontanarsi, alzò la stanga e minacciando di percuotere con essa quello che stavano più vicini a lui. In quel momento sopraggiunse il Pendola, il quale fino a quel momento non aveva fatto parte della comitiva. Il Pendola, visto il Frantini con la stanga alzata minacciosamente, si avanzò verso di lui e gli sparò un colpo di rivoltella all’altezza dell’addome. Il Frantini cadde a terra e noi fuggimmo per diverse strade. Nel recarci in cerca del Frattini, da nessuno fu manifestato il proposito di uccidere il Frantini o di usargli comunque violenza. Lo scopo della spedizione era soltanto quello di chiedere al Frantini se fosse autore delle scritte. Non ricordo se si fosse deciso di costringere il Frantini a cancellare le scritte.”
Un altro teste, che abitava “poco lontano”, ricordò che “il delitto suscitò molto scalpore a Rapallo, se ne parlò a lungo, si fecero i nomi di coloro che avevano preso parte all’aggressione, tanto da divenire noti”.
I colpevoli non vennero mai puniti, prima, arrivato il fascismo al potere, nel dicembre del 1922 venne emanata un’amnistia per i loro crimini, mentre nel 1946 il giudice istruttore stabilì che in base al codice Zanardelli, del 1889, in vigore all’epoca dei fatti, solo l’autore materiale dello sparo era imputabile, e cioè Benedetto Pendola. Ma questi, che comunque si era reso latitante, il 25 luglio 1946 venne prosciolto dalla Corte d’Assise di Genova per l’intervenuta amnistia del giugno precedente (la famosa amnistia Togliatti).