Le crisi vissute da noi italiani d’oggi, figli fortunati del dopoguerra, non hanno mai avuto un respiro totalizzante. Non durante la guerra fredda e la minaccia atomica; non negli anni del terrorismo interno o internazionale; neppure durante le crisi petrolifere e nemmeno nei difficili periodi di crisi economica che ciclicamente si sono avvicendate. Mai, fino ad ora, abbiamo avuto la sensazione che il nostro stile di vita, il nostro mondo, la stessa nostra esistenza siano stati messi seriamente e strutturalmente in pericolo. La guerra non ci ha toccato, la fame, praticamente, non ci ha lambito.
Le crisi più recenti hanno tratti differenti: sono più profonde, minano certezze consolidate perché sono globali, articolate, più difficili da affrontare e da risolvere.
Paura di perdere il benessere acquisito, senso di disagio e di impotenza, inclinazione alla chiusura nella propria sfera personale sono comprensibili sentimenti di ritorno.
Atteggiamenti che però non possono essere l’orizzonte ultimo, perché rappresenterebbero un approdo ristretto che confinerebbe le nostre aspettative in uno spazio chiuso, impietrito.
Queste crisi ci dicono che restare mentalmente isolati nella cura esclusiva di se stessi e dei propri interessi non è la scelta vincente. Di fronte alla globalità delle questioni sul terreno, dobbiamo andare un grado oltre. Perché solo nella prospettiva collettiva – che non è in contrapposizione a quella privata, ma che è l’unica a garantire gli interessi di tutti – possono essere affrontate le questioni generali, quelle che vanno oltre la sfera del singolo. Ce ne stiamo accorgendo in questi giorni pesanti, durante i quali ognuno di noi potrebbe diventare l’altro. Giorni in cui ogni nostra azione apparentemente banale ha un peso che va ponderato e misurato con dettaglio maniacale perché potrebbe avere effetti imprevedibili.
Dunque è importante che quanto oggi emerge resti, anche quando l’ordinario tornerà ad affollare le nostre piazze.
Comprendere che, in quanto componenti di una collettività, siamo di fronte ad un destino comune nel quale qualsiasi nostra azione, minima o importante che sia, ha riflessi sul collettivo e sulla sua proiezione strutturata – che per comodità possiamo chiamare Stato – sarà sempre più indispensabile.
Tutto questo perché solo i sistemi democratici più forti e a più alto grado di partecipazione, solidarietà e appartenenza, saranno in grado di adattarsi con successo ai cambiamenti in atto, senza subirli. Meglio degli altri riusciranno ad organizzarsi per essere più resistenti e resilienti.
Coniugare libertà, responsabilità, umanità: queste le sfide civili e culturali che, ancora prima di ogni altra, questa stagione straordinaria già da ora rinnova. E che richiama ogni cittadino ad un alto grado di coscienza e consapevolezza ordinarie, nell’agire di tutti i giorni.